Esportiamo talento, ma ne attraiamo poco: il confronto con l’UE
Una domanda ha accompagnato l’analisi: l’Italia sta diventando un Paese che esporta talento senza riuscire ad attrarne abbastanza?
Più studenti italiani all’estero che europei in Italia
Nel 2023, oltre 52.000 studenti italiani hanno scelto un altro Paese UE per proseguire gli studi terziari. In direzione opposta, ne sono arrivati solo 15.000. Il saldo è fortemente negativo: per ogni studente europeo che arriva, più di tre italiani se ne vanno. Il divario si allarga lungo il percorso: se nel primo livello (bachelor) il rapporto è 3:1, nel secondo livello (Master of Science) si passa a 4:1, fino ad arrivare a 11:1 per gli iscritti ad un corso di dottorato. Più cresce la specializzazione, più si rafforza la spinta a partire.
L’Europa parla chiaro: si va dove il sistema è più solido
Il confronto tra entrate e uscite di studenti è impietoso: l’Italia perde più studenti di quanti ne attragga in 19 Paesi su 24 con dati disponibili. Ad esempio, per ogni studente austriaco che viene in Italia, 36 italiani vanno a studiare in Austria. Stessa cosa accade per altri paesi come Danimarca (18:1), Svezia (8:1), Germania (7:1), Francia (4:1) e Spagna (3:1). Riusciamo ad attrarre solo da Paesi meno sviluppati del nostro: 18 greci arrivano per ogni italiano che va in Grecia, e lo stesso vale per Cipro (6:1), Croazia (4:1), Polonia (2:1). Siamo di poco in vantaggio con la Slovacchia. Chi può, parte. Chi ha meno alternativa, arriva.
Internazionalizzazione: serve visione e strategia, non solo numeri
Da anni si parla di internazionalizzazione come chiave per rispondere al calo demografico. Ma rischiamo di ridurre tutto a un conteggio di iscritti. Oggi attraiamo principalmente studenti da Paesi in via di sviluppo, mentre perdiamo terreno verso quelli con sistemi più avanzati. Il risultato? Diventiamo esportatori netti di capitale umano qualificato. Da questa analisi sono esclusi i paesi non europei ma, per fare un esempio, attiriamo più studenti da Iran, Kazakistan, Kirghizistan ed Etiopia, rispetto a quanto non facciamo da Stati Uniti, Canada, Giappone o Corea del Sud. Internazionalizzare non può voler dire solo “riempire le aule”.
Non tutte le università possono (e devono) internazionalizzarsi
Proprio per questo, c’è un punto delicato, ma che è necessario menzionare. Internazionalizzare non è obbligatorio: non tutte le università hanno le risorse, le relazioni o la visione per sostenere una strategia internazionale. E inseguire questa strada “per non chiudere” rischia di trasformarsi in una scorciatoia inefficace. In altre parole, mettere benzina in un motore difettoso non basta a far ripartire il sistema. Per alcune realtà, potrebbe aver più senso investire nel radicamento locale, nel lifelong learning o nell’innovazione della didattica. Serve anche il coraggio di decidere cosa non fare.
Formiamo talenti, ma li lasciamo andare
Questi dati sono anche ottimisti perché non guardano a coloro che emigrano dopo gli studi. Ogni anno destiniamo risorse pubbliche per formare studenti italiani e internazionali. Ma alla fine del percorso, troppi scelgono di emigrare per lavoro perché manca un ecosistema pronto a trattenerli. Il mercato del lavoro italiano è ancora poco internazionale, e chi arriva da fuori fatica a inserirsi a causa di ostacoli linguistici, culturali, burocratici. Perfino il rilascio dei visti può diventare un deterrente. Senza una strategia sulla permanenza, rischiamo di essere il Paese che forma talenti (non solo italiani, ma anche stranieri) per altri. E ogni talento che parte, porta via con sé una parte dell’investimento collettivo che tutti noi abbiamo fatto.
Guidare i flussi per non subirli
Oggi l’Italia subisce la mobilità internazionale più di quanto non la guidi. Manca una strategia per attrarre capitale umano qualificato e strumenti per trattenere chi si forma qui (perché fornire un’agevolazione fiscale solo a chi torna e non proporla invece per chi decide di rimanere?).
Il risultato è duplice: perdiamo capitale umano e non riusciamo a diventare una destinazione per i migliori studenti globali. In sintesi: siamo terra di passaggio, non di arrivo.
E se i flussi si invertissero? Se ogni anno migliaia di studenti da Germania, Svezia o Francia (per rimanere in Europa) scegliessero di studiare e fare ricerca in Italia? Non sarebbe questo il segnale più forte della nostra competitività?
Diventare una meta di talento globale è questione di ambizione.
La stessa ambizione che ci servirebbe per definire una politica industriale che ci ponga non più come fornitori, ma come committenti del mondo. Ma questa è un’altra storia, che forse racconteremo in una delle prossime newsletter.
La nota dell’Osservatorio Talents Venture
“Il deficit studentesco: per ogni studente che arriva, 3 se ne vanno” è la nota che analizza non è solo la quantità del capitale umano che perdiamo, ma anche la qualità.
Secondo i dati Eurostat più aggiornati (anno 2023), per ogni studente universitario che sceglie l’Italia da uno dei 27 Paesi dell’Unione Europea (UE), più di tre studenti italiani vanno all’estero: 52.653 studenti in mobilità in uscita, contro appena 15.337 in entrata.
Ma a preoccupare non è solo la quantità, quanto la qualità del capitale umano che perdiamo. Il saldo, infatti, peggiora progressivamente salendo nei livelli dell’istruzione universitaria.
Se nelle triennali il rapporto tra gli studenti in uscita e quelli in entrata è di 3:1, nelle magistrali sale a 4:1, fino a toccare l’apice tra i dottorati: 11 PhD in uscita ogni 1 in entrata.