E se la prossima pandemia fosse digitale?

By: Angelo Rossi0 comments

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Gli effetti spaventosi di una pandemia digitale

È passato più di un anno dall’inizio della pandemia, dove imparavamo a conoscere le limitazioni imposte dai vari lockdown e zone rosse. Oggi, però, non vogliamo parlare di Covid-19, ma ci interessa buttare uno sguardo al futuro. Il World Economic Forum si è chiesto cosa potrebbe accadere se la prossima pandemia fosse nel mondo digitale.

In un’ipotetica cyberpandemia milioni di dispositivi potrebbero andare offline nel giro di pochi secondi. Uno scenario distopico e spaventoso vero? Ma un anno fa chi avrebbe pensato che le nostre vite sarebbero cambiate radicalmente?

Secondo il World Economic Forum sono tre gli aspetti da tenere in considerazione.

Un attacco informatico con caratteristiche simili a quelle del corona virus si diffonderebbe più velocemente di qualsiasi virus biologico. Se il vettore di contagio dovesse essere quindi un popolare social network con circa 2 miliardi di utenti, il virus impiegherebbe meno di 5 giorni a infettare 1 miliardo di dispositivi.

La seconda considerazione riguarda gli impatti economici. Un lockdown nel mondo digitale avrebbe delle conseguenze di gran lunga peggiori della crisi dell’ultimo anno provocata dalla chiusura delle attività commerciali e produttive. In Italia, un giorno di lockdown digitale potrebbe costare circa 500 milioni di euro.

In caso di una diffusione esponenziale del virus l’unico modo per bloccare la sua propagazione sarebbe quello di disconnettere tutti i dispositivi, in attesa che un vaccino digitale trovi la cura. Tutte le comunicazioni sociali e di lavoro basate su internet sarebbero interrotte. L’incontro di persona rappresenterebbe l’unico modo per svolgere l’attività lavorativa e mantenere le relazioni sociali. E chissà se qualche furbetto non riuscirà a rinunciare alla tentazione di violare il coprifuoco digitale accedendo al suo account Instagram…

L’ultima riflessione fatta dal World Ecomnomic Forum riguarda la ripresa dal cyberattacco. Ipotizzando un tasso di mortalità simile a quello del coronavirus, andrebbero fuori funzione circa 70 milioni di dispostivi digitali che dovrebbero essere sostituiti in poco tempo. Questo porrebbe un peso non indifferente sulla filiera produttiva che sarebbe chiamata a produrre in tempi brevissimi tali dispositivi. Senza sottovalutare la presenza di tensioni geo politiche dovute all’estrema concentrazione geografica di questi produttori: nel 2018 infatti la Cina ha prodotto il 90% dei cellulari, il 90% dei computer ed il 70% di televisioni.

Come prevenire una pandemia digitale

Per far sì che questo scenario rimanga solamente distopico e non si trasformi in realtà, secondo il World Economic Forum occorre investire in tecnologie e competenze relative alla cybersecurity. E cosa stiamo facendo in Italia per contrastare questo rischio? Purtroppo, ben poco.

Nell’anno accademico 2020/2021, su oltre 5.000 corsi di laurea, quelli in sicurezza informatica erano solamente 6. Alla Statale di Milano, l’Università di Bari, l’Università del Molise e la Sapienza a Roma, nell’ultimo anno si sono unite anche gli atenei di Padova e Pisa.

A questa lista di università virtuose si aggiungono inoltre l’Università di Cagliari, l’Università di Udine e la Bocconi. Sebbene con codice di laurea diverso da Lm-66 (quello per Sicurezza Informatica), questi atenei offrono dei corsi di laurea che menzionano la parola Cybersecurity o Cyber Risk nel proprio nome.

Con la cyberpandemia quindi non dovremo compiere gli stessi errori fatti con il Covid-19 e farci trovare impreparati.

Sono abbastanza 9 corsi di laurea, tutti magistrali, per fronteggiare un rischio noto? La domanda è volutamente retorica.

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